Resoconto della conferenza del 1° seminario 2012

Sabato 28 gennaio 2012, Milano – George Simons

di Maura Di Mauro*

Sabato 28 gennaio 2012, presso lo Spazio Sirin di Milano si è svolto il 1° seminario dell’anno in corso organizzato da Sietar Italia. Nella stessa giornata ha avuto luogo l’Assemblea annuale dei Soci. Per questo ricorrente evento annuale, che per Sietar Italia rappresenta un appuntamento rituale e di apertura delle proprie attività, è stato invitato a parlare George Simons, sul tema de “Il futuro dell’Intercultura”**.
Per chi non lo conoscesse, George Simons è uno dei padri fondatori di SIETAR Europa, ed oggi è una delle personalità che possiamo considerare tra le più esperte sul tema dell’intercultura a livello mondiale, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista teorico. Simons è membro di SIETAR da più di venti anni, e ha prestato il suo servizio sia nel direttivo di SIETAR Francia sia in quello di SIETAR Europa. Ha un dottorato in Psicologia alla Claremont Graduate School. Ha creato otto degli strumenti della serie Cultural Detective® e ha pubblicato più di quindici giochi formativi della serie Diversophy®. Ha pubblicato “EuroDiversity”, “Global Competence”, “Working Together”, “Putting Diversity to Work”, “Men & Women”, “Partners at Work” e “Transcultural Leadership”; è coautore di “The Questions of Diversity”, “Cultural Diversity Fieldbook” e “Cultural Diversity Sourcebook”. E’ nato negli Stati Uniti, e ha vissuto in Germania, in Olanda, e attualmente vive in Francia.
A causa dello sciopero dei treni nazionali, George Simons e la sua assistente, Katrin Volt, non sono riuscita ad arrivare a Milano, in quanto sono rimasti bloccati a Nizza. Ma non tutti i mali vengono per nuocere”; e infatti, in questi tempi moderni anche per l’intercultura, lo sciopero dei treni ci ha consentito di organizzare, last-minute, una virtual conference call. E grazie ad internet, skype, laptop dotati di webcam, molta flessibilità e collaborazione, nonché la capacità di Simons di condurre seminari formativi anche a distanza, siamo riusciti a seguire le sue riflessioni sul futuro dell’Intercultura.

In linea con ogni buon processo di conoscenza culturale, per parlare del futuro dell’intercultura, George Simons ci ha accompagnati in un viaggio che non poteva che partire dal ripercorre anzitutto il passato: Da dove veniamo? Chi erano i primi interculturalisti? Quali erano i loro scopi?
La storia, infatti, – delle persone, dei luoghi – gioca un ruolo fondamentale nei discorsi culturali, nelle strutture sociali, così come negli obiettivi politici in cui ciascuno di noi è oggi immerso. Attraverso la storia possiamo imparare come la diversità e le questioni interculturali sono state percepite e gestite.
Tra i personaggi della storia che possiamo considerare tra i primi pionieri dell’intercultura, in quanto durante i loro tempi hanno contribuito a gestire le diversità, Simons ha citato: Francis Xavier, un missionario gesuita che ha operato in India e in Japan; Serse, re di Persia; Maria Teresa, imperatrice d’Austria; Babur Mughal, imperatore dell’India; Erodoto, l’antico storico greco; l’imperatore del sacro romano impero, Federico II, anche soprannominato “Stupor Mundi”; Al-Malik an-Nâsir Salâh ad-Dîn Yûsuf, che arrivò da Tikrit (Irak) per diventare il sultano d’Egitto; l’imperatrice Teodora, la moglie “femminista” di Giustiniano.
Amy Chua, nel libro Day of Empire mostra come gli imperatori, i commercianti, i colonizzatori e i missionari – e soprattutto come essi abbiano gestito le relazioni con diverse popolazioni – abbiano giocato un ruolo fondamentale – sia negli imperi in ascesa che negli imperi in declino, sia nell’antichità, che nei giorni più recenti – nella definizione di una prospettiva interculturale.
Simons ci ha inoltre ricordato, come le relazioni di viaggio che i gesuiti ci hanno lasciato costituiscano una ricca fonte di formazione culturale. Impossibile, inoltre, non riconoscere la particolare abilità dei gesuiti, di adattarsi, e di saper partecipare alle diverse culture in cui si sono recati.
Lo sviluppo delle competenze interculturali come campo di studio e come ambito professionale risale ad un’epoca piuttosto recente, identificabile a partire dagli anni ’60.
A partire dalla metà degli anni ’50, infatti, con l’aumento delle industrializzazioni, dei commerci, delle questioni politiche da gestire, delle migrazioni, delle economie, delle religioni, delle tematiche relative alla cura e alla salute, diviene sempre più evidente la necessità di sviluppare competenze interculturali e la capacità di stabilire sinergie. E’ proprio in questi ambiti, che noi interculturalisti, come ricercatori, come formatori, consulenti o professionisti operanti nelle organizzazioni, siamo chiamati ad operare e ad apportare il nostro contributo.
Negli anni ‘70 – ‘90, con gli studi di Hall, Hofstede e collaboratori, si rintraccia un primo framework “occidentale” nell’ambito della ricerca e degli studi interculturali. A partire dagli anni ’90, si delinea un differente modello, che tiene in considerazione l’aumento delle diversità, della mobilità e della globalizzazione. Questi nuovi fenomeni, infatti, richiedono un cambiamento nell’orientamento valoriale degli studi interculturali, e un’attenzione sempre più situazionale alle dinamiche interpersonali ed interculturali, al fine di comprendere le dinamiche di ibridità e glocalità.

Secondo Simons, oggi, come interculturalisti, siamo divisi non solo da due principali generazioni di studi, ma anche dalle professioni da cui ciascuno di noi proviene e a cui rimane ancorato. E’ come se all’interno del campo dell’intercultura ci fosse oggi un ampio numero di tribù, ciascuna delle quali vive nella sua nicchia circoscritta; ciascuno si avvicina ai membri della sua specie, e al tempo stesso ricerca e raccoglie i discorsi interculturali – sia in termini teorico sia in termini pratici -, della nicchia a cui appartiene. Ma la diversità, ci ricorda Simons, è molto più ricca e variegata, e al tempo stesso molto confusiva.
All’interno della disciplina interculturale prevale un discorso occidentale post-illuministico, che si basa sul razionalismo, l’empirismo e le metodologie scientifiche, nonostante l’intercultura raccolga contributi da parte di specialisti in diversità, da antropologi culturali, storici culturali, linguistici culturali, psicologi culturali, psicologi interculturali, comunicatori interculturali, negoziatori interculturali, leader trasculturali, ricercatori nell’ambito del management e dell’intelligenza culturale, i coach culturali, i preservatori culturali, gli specializzati in marketing cross-culturale, gli eco-culturalisti, i missionari, … e chi più ne ha più ne metta.
Le dimensioni valoriali di Hofstede et coll. costituiscono una parte essenziale di una visione di cultura che sta sempre più perdendo terreno, in quanto si scontra con l’ibridità e con le domande contestualizzate che provengono dall’interno di mondi globalizzati. Inoltre, i crescenti bisogni di decolonizzazione si contrappongono a dimensioni culturali standard, che vengono rifiutate, in quanto imposte, e in quanto perpetuano modelli intellettuali sul resto delle esperienze culturali del mondo.

Per queste ragioni, il futuro dell’intercultura è da ricercarsi in nuovi modelli e in nuovi strumenti, che derivano da orientamenti valoriali nuovi, che riconoscano e valorizzino l’espressione delle percezioni e degli ideali della varietà delle persone con cui sempre più entriamo in relazione, anziché fornire una valutazione astratta dei loro comportamenti.
Il razionalismo occidentale, permeato dalla superiorità intellettuale e morale ha creato una mindset (anche un modo di approcciarsi all’intercultura) che tende a “scolorire” le culture. Da Procruste a Occam’s Razor abbiamo infatti prevalentemente sviluppato una capacità – seppur fine – di tagliare ciò che non è conforme alla nostra immagine.
Simons ci riconduce ad una visione della cultura costruzionista: “La cultura è una memoria collettiva, sistematicamente infedele al passato, tesa a soddisfare i bisogni del presente (R.A. Peterson)”. Tendiamo infatti ad affrontare il presente, cercando di ricostruire il passato per come è sempre esistito, e nel modo in cui lo abbiamo adottato.
L’ “identità culturale”, ci dice Simons, è una mera illusione, in quanto l’autenticità e l’identità non hanno esistenza di per sè; esistono solamente attraverso atti virtuosi di identificazione che noi stessi, attraverso le nostre azioni e le nostre conversazioni produciamo.
La stessa decolonizzazione è una modalità di pensare della cultura occidentale, che si basa sull’illuminismo, il metodo scientifico, l’empirismo, sulla superiorità morale, l’imperativo civilizzante, sull’economia di mercato e sul consumismo.
La globalizzazione, attraverso l’esportazione di un modello culturale, e al tempo stesso l’incontro tra culture, ha prodotto delle malattie nuove: le malattie del marketing, quali l’anoressia, le malattie post-traumatiche da stress, la schizofrenia, la depressione. La globalizzazione ci conduce ogni giorno ad identificare e ad affrontare l’urculture, ovvero le culture del genere, delle generazioni, della scienza, delle religioni, dell’economia, del marketing,… Non un’unica cultura definita, ma una molteplicità di culture, spesso integrate.
Ma che cos’è la cultura? “Ovviamente esiste. Altrimenti come potrei spiegare il comportamento di quelli che trovo incomprensibili? (Anonimo)”. Quando parliamo di cultura non facciamo riferimento solo all’influenza della cultura in termini generali sul comportamento umano; l’influenza della cultura, o delle diverse culture, è infatti situazionale, determinata dai contesti di interazione interculturale.

Per il paradosso del “glocal” noi dobbiamo essere in grado di interagire efficacemente a livello locale tanto quanto a livello globale. Il locale funziona attraverso una modalità olistica, in cui il gruppo determina ruoli e posizioni, gerarchie, obblighi e doveri, in cui prevale la fedeltà al gruppo, le regole negoziabili, le relazioni personali, i network importanti. Il globale, invece, funziona attraverso i contratti sociali, l’identità costruita attraverso i risultati, la ricerca di autonomia, l’uguaglianza, i diritti, gli interessi comuni, le regole universali, il funzionamento, l’efficienza, l’anonimità.
Simons ci ricorda la difficoltà di gestire le diversità culturali e di sviluppare competenze interculturali. Cosa intendiamo per competenze interculturali? Quelli’insieme di conoscenze e di consapevolezze rispetto a se stessi in quanto esseri culturali: dei propri valori, di come questi valori si esprimono attraverso i propri atteggiamenti e attraverso le proprie modalità comportamentali e comunicative; attraverso le stesse conoscenze e consapevolezza, ma rispetto agli altri; la volontà, gli strumenti e l’abilità di identificare e di rispondere creativamente alle sfide culturali e ai conflitti, in modo da rispettare e prendere in considerazione l’altro; la conoscenza di come la cultura è costruita e decostruita; la capacità di creare il proprio spazio di sicurezza.
Quando l’incontro tra culture va impattare sulle identità più profonde, questo può portare allo scontro, o a un processo di cambiamento che non è privo di sofferenza. La stessa metafora della cultura come cipolla, ci fa pensare allo sviluppo delle competenze interculturali come un processo che può essere doloroso: pelare le cipolle, infatti, – che equivale ad andare al nocciolo della propria identità – ci fa lacrimare!
Il futuro dell’intercultura? Partecipare alla costruzione di nuovi mondi, di nuove modalità di interazione, senza essere solo osservatori. Contenere e supporta le persone in processi di cambiamento, dando voce alle loro emozioni e arginando le loro emozioni negative nella gestione della diversità. Questo supporto è possibile grazie ad approcci alla formazione sempre più personalizzati, one-to-one. Quale sarà nel futuro il valore degli strumenti di analisi e di intervento interculturali? Il loro valore è identificabile principalmente nella discussione, nello scambio tra collaboratori e nella loro abilità di scambiarsi storie.

Molti stimoli, molte domande, molte riflessioni. E’ così che Simons ci ha lasciato. Nessuna legge, nessuna certezza. Forse l’intento di stabilire nuove interconnessioni – virtuali e face-to-face -, per attivare nuovi scambi, nuovi spazi, per creare nuove culture e ponti interculturali.

 

Per scaricare la presentazione di George Simons cliccate sul pulsante a lato

 


 

* Maura Di Mauro è una formatrice, consulente, coach interculturale.
** L’anno scorso, per lo stesso evento era stato invitato, sempre a Milano, Milton Bennet. Bennett aveva affrontato il tema “What all interculturalists need to know: they are not cross-cultural psychologists, anthropologists, internationalists. A constructivist approach to interculturalism”.