Resoconto del workshop del 5° seminario 2011

Insegnare meglio le lingue grazie all’apporto degli stuendti non italiani in aula

di Patrick Boylan
di Marianna Amy Crestani*

Giovedì 26 maggio, il nostro socio (e co-fondatore di SIETAR Italia) Patrick Boylan ha tenuto un interessante seminario sull’insegnamento interculturale delle lingue per 60 insegnanti di lingua inglese provenienti dalla provincia di Bergamo e province limitrofe organizzato da Anderson House ed in collaborazione con il CRTDrils – ente ministeriale diretto da Noemi Ciceroni. Ne segue un breve resoconto.

Patrick esordisce chiedendo ai partecipanti di fornire una definizione del concetto di ‘comunicazione interculturale’ per poi suggerire che si assiste a dinamiche di comunicazione interculturale non soltanto tra persone di nazionalità o di etnie diverse, ma ogni qualvolta due persone che abbiano diverse formae mentis, cercano di comunicare tra di loro. Un esempio? Il divario interculturale che esiste tra una donna e un uomo, anche se connazionali. ‘Leggiamo queste due pagine prese da due diari diversi, relative alla stessa giornata vissuta insieme – incita Patrick – prima il diario della moglie e poi il diario del marito. Ne segue un esilarante racconto di una pagina intera del diario di lei, ricca di ‘e se fosse che…’, ‘ma…’,  ‘potrebbe forse significare che…’, scritta per cercare di capire la freddezza del compagno durante la giornata trascorsa insieme, ivi compreso durante il loro rapporto sessuale e che approda alla conclusione che il loro rapporto è entrato in una crisi irreparabile.  Mentre il diario di lui per quella giornata consiste in due righe soltanto: “Oggi, porca miseria, l’Atalanta ha perso. Meno male che almeno ho trombato.”  Stessa giornata, dunque, ma vissuta in maniera completamente  diversa.  Stride la totale incapacità di lei di entrare nel mondo di lui (lei si accontenta di proiettare su di lui, le proprie preoccupazioni e di interpretare lui secondo i propri schemi esistenziali) e, naturalmente, vice versa.  Per capirsi davvero, invece, lei dovrebbe riuscire non solo a capire ma a sentire come importanti le cose importanti per lui, cioè ad entrare nei vissuti di lui – e, ovviamente, vice versa.  Entrare nel mondo dell’altro e comunicare con lui/lei dall’interno di quel mondo è, dunque, l’essenza della comunicazione interculturale.

Esattamente allo stesso modo, l’insegnante di lingua deve far cambiare punto di vista dei suoi alunni – i vostri alunni, da italiani, bergamaschi e lombardi, devono cominciare ad entrare nella mentalità inglese o americana o australiana o giamaicana… o quella che desiderano, purché del mondo anglofono.  Perché la lingua non è sintassi, ma è un modo di  porsi.  E l’apprendimento della lingua straniera deve avere come scopo principale quello di permettere agli studenti di assumere una nuova forma mentis.’ – spiega Patrick.

Per far capire ai partecipanti esattamente cosa intende, Patrick assegna il compito di imparare a parlare con il calciatore David Beckham – compito possibile solo se si conosce la mentalità di Beckham. Per  poter far questo, quindi, viene fatto vedere un’intervista al calciatore, quindi un video della città natale di Beckham ed un video della scuola frequentata dal calciatore. In particolare, nell’intervista si nota lo slang tipico di Londra – che gli insegnanti considererebbero sicuramente “sbagliato” – usato da Beckham il quale, tuttavia, si comporta durante l’intervista da perfetto gentleman. Inoltre nel video della scuola frequentata da Beckham, si nota come ‘la cultura scolastica anglosassone’ plasma i giovani: i tavoli della classe sono disposti ad isole autonome, si fa brainstorming, gli studenti rispettano il silenzio ed aspettano che l’insegnante conceda loro la parola prima di intervenire. Una cultura educativa, dunque, estremamente individualista e basata sull’autocontrollo anche al di fuori dalla classe.

Ne segue quindi una prima attività di ‘autoconsapevolezza’ in cui  i partecipanti devono collocare se stessi, la propria percezione dell’Italia e la propria percezione della Gran Bretagna di Beckham lungo 4 continuum di ‘spontaneità vs autocontrollo’, ‘gioco equo vs astuzia’, ‘incontenibilità vs atteggiamento difensivo’ e ‘improvvisazione vs organizzazione’.  Parametri non-hofstediani perché, teorizza Patrick, per capire le culture bisogna inventare parametri ad hoc per ognuna di loro; se si cerca di usare parametri universali validi per tutte le culture, si ottengono solo i risultati superficiali a cui approda, appunto, Hofstede. Comunque a titolo di paragone vengono poi dati i risultati delle ricerche di Geert Hofstede.

Dalla percezione dei parametri culturali che hanno formato David Beckham, si passa poi a desumere come bisogna parlargli per “entrare nel suo mondo” e capire gli schemi a lui importanti – per esempio, onorare le istituzioni ma trattare gli individui come eguali, ragionare sulla base di bisogni individuali e prestare attenzione all’organizzazione evitando però di essere invadenti.

A questo punto, Patrick assegna ai partecipanti una seconda attività: devono immaginare di essere in un bar a Milano e di notare, ad un tavolo vicino, proprio David Beckham con le sue guardie del corpo. Devono inoltre immagine ‘che la moglie Victoria abbia appena lasciato David e abbia portato i bambini in Inghilterra presso una destinazione sconosciuta; David ha quindi cominciato ad eccedere nel  bere alcolici: voi non sopportate di vederlo in quello stato; volete venirgli incontro quindi gli scrivete un breve messaggio in cui gli fate capire che in voi può trovare qualcuno con cui parlare perché lo capite veramente. Potete persino invitarlo a casa vostra in modo che non debba stare in un freddo albergo (per le insegnanti sposate, immaginate pure che i vostri mariti siano pronti ad accettare qualsiasi cosa pur di aiutarvi a migliorare il vostro inglese). Il vostro compito, quindi, è quello di adattarvi al modo di parlare, di interagire e di pensare di David Beckham e, con quella forma mentis, scrivergli un biglietto’.

Attività non facile che subito viene accolta con sgomento ma che poco dopo vede 60 teste chine sui fogli produrre risultati anche sorprendenti come ‘Hi! Listen! I recognized you’ oppure ‘Hi! I’m a good drinker too – fancy sharing a beer with me?’ Sorprendenti proprio perché si trattava di insegnanti abituati a far scrivere ai loro alunni frasi squisitamente scolastiche. “Durante questi 5 minuti, dunque – dice Patrick, concludendo il primo esercizio – avete imparato effettivamente a pensare e ad esprimervi in inglese… da inglesi.  O meglio, da un certo tipo di inglese, uno come Beckham. Cioè, durante questa mezz’ora non avete imparato nuove parole – sapevate già hi, listen, recognize, good, drinker – solo che non avreste forse  usate quelle parole nei modi giusti in cui le avete usate (giuste per un inglese come Beckham, s’intende) se non aveste cambiato mentalità.  E facendo così, siete riusciti a fare ciò che la moglie, nella barzelletta iniziale, non era arrivata a fare col marito.  Complimenti.

Patrick ripete quindi la stessa dinamica dell’esercizio supponendo in questo secondo caso di comunicare con un giovane marocchino di nome Bouba. Come nel caso di David Beckham, i partecipanti sono stati progressivamente introdotti alla cultura di Bouba attraverso filmati che hanno fatto vedere un Marocco moderno e diverso dagli stereotipi, la scuola frequentata da Bouba che gli insegnanti hanno potuto apprezzare attraverso le scene filmate in classe.  Ma soprattutto Patrick ha evidenziato alcune frasi chiave tratte del blog di Bouba (scritto in inglese, quindi gl’insegnanti non hanno avuto difficoltà a leggerlo), nonché alcuni commenti dei lettori del blog di Bouba (anch’essi in lingua inglese, utilizzata sempre più in Marocco a scapito del francese) in cui si nota tuttavia uno stile alquanto cerimoniale, poco britannico, tipico di chi conserva gli antichi valori della cultura araba.

Ne segue quindi la seconda attività di ‘autoconsapevolezza’ in cui  i partecipanti devono collocare se stessi, la propria percezione dell’Italia e la propria percezione del Marocco di Bouba lungo 4 continuum ad hoc, messi a confronto poi con le ricerche di Hofstede.

E come si traducono questi parametri in discorsi culturalmente autentici?  Ecco quindi che Patrick chiede ai partecipanti di scrivere un commento nel blog di Bouba per rispondere ad una certa sua osservazione polemica (Purtroppo, manca il collegamento Internet e quindi non è possibile scrivere i commenti realmente sul blog, come sarebbe invece auspicabile in un training o in una lezione di lingua).  Anche in questo caso il commento deve dimostrare la capacità di adattarsi il più possibile al modo di parlare, interagire e pensare di Bouba.

Tra gli esempi raccolti dal pubblico, ce ne sono di veramente appropriati in cui si esordisce facendo i complimenti a Bouba per il suo blog, quindi ci si dice d’accordo con lui nella sua polemica ma poi lo si informa della situazione in Italia che, per quanto simile, si discosta dalla realtà marocchina. ‘In questo modo vi siete impegnati a parlare come il vostro interlocutore, ad usare generosamente i complimenti,  specie come formula di apertura e di chiusura, e a concordare con lui (per rispetto) prima di suggerire possibili divergenze’.

Come possono quindi essere usate queste percezioni in una classe di lingua straniera a Bergamo o in Lombardia, in particolare in una classe con parecchi studenti non-italiani?

Patrick ha scelto l’attività incentrata sul blog di un marocchino perché, dalle indagini da lui fatte prima del seminario, gli alunni marocchini risultano tra i più numerosi nella provincia di Bergamo. L’attività appena svolta (scrivere sul blog in lingua inglese di un giovane marocchino) sarebbe dunque un’attività che gli insegnanti potrebbero benissimo svolgere, tale e quale, nelle loro classi.  Con tre benefici.  Prima, ciò facendo darebbero un riconoscimento esplicito alla cultura dei ragazzi marocchini in classe (l’attività può naturalmente ripetersi con le altre culture presenti) e così li si avvicina alla scuola; nel contempo, si manda il messaggio agli alunni italiani che i loro compagni di banco “diversi”, per quanto essi si siano italianizzati o cerchino di sembrare italiani, hanno valori interessanti da conoscere.  Questa percezione avrà ricadute positive nelle lezioni di geografia e di storia, oltre a formare migliori futuri cittadini globali; inoltre, nel caso specifico degli insegnanti lombardi d’inglese, questa percezione valorizzerà la lingua da loro insegnata agli occhi dei loro alunni, come idioma globale (lo si usa per parlare non solo con Beckham ma anche con Bouba).  In secondo luogo, l’attività del blog (o altre attività di comunicazione reale, come le interviste fatte per strada a turisti stranieri) fanno vedere agli alunni che le lingue servono realmente, non sono giochi puramente grammaticali ma strumenti che ci mettono in contatto con altri.  “Altri”, dunque, che possono avere cugini seduti proprio accanto a loro sul banco.  La ricaduta estremamente positiva di queste percezioni sull’apprendimento delle lingue, durante gli anni di scuola ma anche dopo, è notevole.  Infine, sul piano puramente grammaticale, fare accenni alle diverse strategie comunicative che si usano nelle diverse culture e che si rispecchiano grammaticalmente anche nelle rispettive lingue, aiuta a capire meglio le “stranezze” della lingua straniera che si cerca di insegnare in aula (in questo caso l’inglese, ma il discorso vale per le lezioni di francese o di tedesco).  I ragazzi non-italiani in aula possono dunque  offrire testimonianze preziose di questi loro modi nativi di esprimersi.

‘L’importante è insegnare la lingua come cultura introducendo concetti come lo stile comunicativo diretto o indiretto, le abitudini visibili al momento dell’interazione, come la prossimità piuttosto che il rispetto dello spazio; essi svelano le radici culturali che si celano nelle lingue. Per gli alunni stranieri,  l’italiano è una lingua straniera tanto quanto lo è l’inglese per gli alunni italiani, quindi usiamo questo parallelismo per creare curiosità e allenare gli studenti a pensare diversamente. E a volersi appropriare di diversi stili comunicativi. Perché, ricordate, le lingue sono stati volitivi, non cognitivi’.

Food for thought? Io credo di sì!

Marianna Crestani

 

* Owner at Synergyplus – Training & Consulting