Conversazione con Giusy Rossi . Lo straniero, da Albert Camus a Kamel Daoud

(Scarica   Conversazione_con_Giusy_Rossi)

Desideriamo sapere alcune cose essenziali di te. Giusy, assistente sociale, Giusy esperta indipendente, …quando ti senti un po’ “straniera”o “estranea” a certe realtà?

Nel mio lavoro attuale sono incaricata di sviluppare attività legate alle politiche giovanili e alla partecipazione attiva di un comune della cintura fiorentina.
In questo lavoro sul territorio cerchiamo di esplorare continuamente nuove relazioni produttive tra ricerca e intervento sul campo, teoria e pratica, nel quadro di una prospettiva europea, che è la nostra cornice naturale di riferimento. Qui ho coltivato il ruolo dell’Assistente Sociale in un modo davvero unico, occupandomi di promozione del benessere, di progettazione sociale e di welfare di comunità, imparando a lavorare alla fine come cultural planner e project manager con i fondi europei, promuovendo attività interculturali e progetti innovativi per la pubblica amministrazione, anche utilizzando linguaggi creativi. Negli anni ho sempre cercato di coltivare i rapporti con gli amici lontani, sparsi per l’Europa e oltre, e di tenere unita la dimensione del lavoro sul territorio con l’esperienza internazionale, grazie agli scambi interculturali giovanili, fino a diventarne a mia volta non solo ideatore e promotore, ma anche consulente per la Commissione Europea come esperto indipendente nella valutazione di questi progetti.
In effetti dopo venti anni di esperienza in questo ambito posso dire che l’Europa è la mia casa. Vivere e studiare all’estero mi ha permesso di acquisire una maggiore
coscienza come cittadina Europea e soprattutto di orientare e qualificare il mio percorso professionale a livello internazionale. In questo periodo, in cui sembra che tutto dell’Unione Europea debba essere rimesso in discussione, sento il dovere di sottolineare  che se anche le istituzioni e regole di funzionamento hanno necessità di essere migliorate per adeguare la governance ai nostri tempi, il progetto europeo rimane una delle più grandi “sperimentazioni di democrazia” della nostra storia. L’Europa non è un’entità astratta, un non-luogo artificiale: l’Europa siamo noi, con le nostre diversità, con le nostre lingue e un patrimonio culturale di tale bellezza che è difficile anche solo immaginare di poterne fare a meno!
La mia curiosità e interesse per l’intercultura nasce quando ero davvero piccola, dai racconti di viaggio di mio nonno, che tornò in Italia a piedi dalla Germania, alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945. Lui aveva imparato il tedesco per sopravvivere come prigioniero in miniera, in un campo di lavoro. Quando ero piccola mi insegnava sempre una parola nuova. Ho imparato per scherzo a contare prima in tedesco che in italiano! Mi diceva sempre che era importante conoscere le lingue per capire le persone di altre culture. All’epoca riuscivo appena a immaginare in astratto cosa voleva dire una “cultura diversa”. Lui per fortuna ha vissuto abbastanza per sentire per la prima volta insieme a me parlare di Erasmus alla televisione. Era il 1986. Qualche anno dopo, quello che era un privilegio riservato a una fortunata minoranza (la possibilità di viaggiare liberamente e di studiare all’estero) era diventata un’opportunità accessibile a tutti. Anche per me, che ero tanto curiosa di andare in Germania, con quelle tre parole in testa: kartoffeln (patate), freunde (amici), dankenschen (grazie). Chissà cosa penserebbe mio nonno oggi: l’Europa può avere il volto degli amici, può guardarti con i loro occhi! Ormai esiste una nuova geografia tra i popoli, costruita lungo gli itinerari internazionali
dell’apprendimento e, grazie alle tecnologie moderne, non esistono più le barriere di un tempo. Ecco una lezione intima che la vita mi ha insegnato e che mi fa piacere condividere.

À propos di Albert Camus ed il suo “ straniero”, romanzo pubblicato durante l’occupazione tedesca, in un momento in cui la censura lasciava filtrare ben poche opere ma accolto con entusiasmo dal pubblico. Che cosa ha rappresentato e rappresenta per te oggi “lo Straniero” ?

La figura di Albert Camus per me rappresenta l’emblema dell’intellettuale impegnato, un vero e proprio modello di riferimento per il suo sguardo attento, lucido e
tagliente sulla miseria della condizione umana, negli anni tragici del totalitarismo del ‘900 in Europa. Scrittore, giornalista, autore di teatro, filosofo (anche se non amava essere definito così) Camus appartiene a una generazione che è cresciuta nella povertà, a  ridosso della seconda guerra mondiale, con la guerra civile spagnola, con il conflitto franco-algerino, in cui ogni giorno davvero era questione di vita o di morte, per milioni di persone. Facilmente saremmo tentati di dividere quel mondo di allora tra vittime e carnefici. Eppure, davanti a questi eventi enormi della Storia il suo approccio critico ci invita a interpretare la complessità del reale e della storia fuori dagli schemi e dalle categorie consolidate: Camus ha rifiutato il velo delle ideologie e, al tempo stesso, non ha perso la speranza e la fiducia nel genere umano.

A differenza di altri filosofi  esistenzialisti, il cui pensiero finisce per appiattirsi nel nihilismo, la sua visione ci offre una prospettiva costruttiva di azione. Prima di tutto ha il merito di aver riconosciuto un indissolubile legame tra la solitudine dell’uomo (l’assurdo) e la possibilità (nonostante tutto, anzi proprio a partire da questa) di costruire una dimensione di solidarietà collettiva. E’ tutta rinchiusa nella sua famosa frase “Mi rivolto, dunque siamo” con la quale richiama il “cogito ergo sum” di cartesiana memoria, per affermare che invece l’uomo può uscire da se stesso e dalla sua condizione di solitudine, impegnandosi per un ideale di uguaglianza e di giustizia condivisa. Questo ci aiuta, secondo me, anche a interpretare i significati della crisi contemporanea: non è sufficiente un approccio solo economico per spiegare la crisi del sistema capitalistico, la filosofia ci permette di indagare gli aspetti più profondi della crisi, quelli della coscienza umana.
Ecco, ci sono libri che cambiano la vita. E per me “Lo straniero” di Albert Camus è uno di questi, è un romanzo che ci apre all’Altro che è in noi, e quindi ci fa incontrare altre prospettive possibili;  vale la pena qui ricordare che il protagonista del romanzo, Meursault, accecato dalla luce del sole, uccide un Arabo sulla spiaggia di Algeri. E la vittima, che rimane un arabo senza nome fine alla fine del libro, se ne esce di scena subito dopo, come un attore minore, per lasciare spazio alla presa di coscienza dell’omicida sulla condizione assurda dell’uomo. Così quando quattro anni fa in un viaggio in Francia scorsi tra i libri più venduti del momento la contro inchiesta sul caso Meursault a opera del giornalista algerino Kamel Daoud (2014), con quell’ombra di un uomo, in copertina, che camminava sulla spiaggia…. Ecco, ho pensato che si stava chiudendo un cerchio, che finalmente avremmo compreso il caso, la vittima araba sarebbe stata riconosciuta e avrebbe avuto una degna sepoltura. E ho letto con grande ansia di scoperta come veniva ricostruito l’altro lato della strada mentre il nostro impiegato del catasto stava affacciato con la sua sigaretta, in canottiera, a guardare i passanti della domenica. Quello che era rimasto volutamente in ombra sembrava raggiunto da un raggio di sole, come a dare la parola a chi finora era stato in silenzio.
E’ proprio qui, sul terreno dell’immaginazione letteraria, che una storia di finzione si connette all’attualità dei nostri giorni. Soprattutto questo ho apprezzato in Daoud: il gesto simbolico di rivolta davanti alle tante vittime di violenza, di cui si è perso il nome, che assume una forma di riscatto e di memoria attraverso il suo racconto. Partire da un caso letterario non è una resa davanti a tante storie vere di violenza che accadono nel Mediterraneo, talvolta è proprio la finzione del racconto che permette di dire l’indicibile.
Non possiamo davvero permettere che il Mediterraneo diventi un cimitero per migliaia di persone di cui si perde ogni traccia. La storia di queste persone ci ri-guarda, anche come semplici spettatori dalla riva. Avverto con urgenza questi interrogativi, dettati dalla  necessità oggettiva di mettere in discussione il nostro agire come cittadini europei, davanti a una società sempre più multietnica in cui siamo chiamati a convivere con la diversità: come possiamo costruire una società aperta, capace di accogliere il punto di  vista dell’Altro? Come possono le nostre comunità, le istituzioni, e il diritto, includere le istanze provenienti da altre culture?

Chi è, a tuo avviso, nel contesto attuale europeo “straniero” ? Qual è la figura dello straniero nel pensiero sociologico? Consideri che esista un legame tra i temi di “estraneità” e “alterità” ?

Analizzare la figura dell’Altro come categoria sociologica può aiutarci nell’interpretazione di quello che accade fra i popoli nel corso della storia. In fondo,
potremmo dire che l’alterità è sempre esistita: la nostra identità si crea per differenza rispetto a ciò che non siamo, rispetto alle immagini che di noi riceviamo dallo sguardo altrui: l’altro ci fa da specchio, la sua semplice presenza ci svela chi siamo. E questo gioco di sguardi avviene sia a livello individuale che come società. Sarebbe interessante anche chiedersi quando l’Altro diventa straniero, e lo straniero nemico. E’ uno sforzo quotidiano, credo, quello di cercare un significato nuovo alle parole e uscire dalle immagini stereotipate, facendo tesoro dell’invito dei due autori, Camus e Daoud, a “decolonizzare lo sguardo”. Il problema della conoscenza dell’Altro si pone in fondo come un processo di maturazione sia individuale che collettiva e mette alla prova le persone nei rapporti sociali più stretti e  nsuetudinari. A ciascuno è richiesto un allenamento nel pensare plurale, come diceva Simone Weil, per ricondurre l’universale al particolare, alla differenza che ci rende unici, ma pari in dignità.

Nel corso della storia la figura dello straniero ha assunto diverse rappresentazioni nell’immaginario, da quella dello xenos, l’ospite nell’antica Grecia, il barbaro, il mercante ebreo, il pellegrino, l’esploratore, l’odalisca, il flâneur… il turista, ma quello che ci interessa qui rilevare è come la presenza dello straniero ci metta sempre
davanti a una ambivalenza di fondo: egli è al tempo stesso dono e minaccia, ci mette davanti all’ignoto, all’ambiguità, da un lato ci affascina, dall’altro ci spaventa, destabilizza il nostro equilibrio e ci costringe a operare una nuova sintesi. Infine, abbiamo il migrante, colui che lascia la propria patria per migliorare le proprie condizioni di vita, spesso per cause di forza maggiore (guerre, carestie, clima…). Parte con un progetto di cambiamento, ma la rotta e, talvolta, anche la destinazione sono incerte, spesso decise da altri. Ed è questa è la figura che secondo me oggi incarna più di tutti lo straniero, perché rappresenta proprio l’altro estremo, il povero, il nero, il musulmano, il diverso che a noi dà fastidio. La sua presenza ci scomoda perché catalizza insieme tutte le nostre paure e pare mettere in discussione i principi su cui si basa la cultura occidentale moderna: il laicismo, perché la sua credenza religiosa è visibile (si fa notare grazie al velo e alle preghiere cinque volte al giorno nelle moschee o nei giardini delle nostre città); il principio di uguaglianza, sovvertito dalla dichiarata sottomissione della donna all’uomo; la democrazia, vista sotto attacco dalla minaccia terroristica (Heyazi, 2009).
Un sociologo algerino, a cui dobbiamo studi preziosi sul fenomeno migratorio in Europa e in Francia in particolare, Abdelmalek Sayad, ci viene incontro proprio su questo piano elaborando alcuni concetti ormai ritenuti imprescindibili nella sociologia della migrazione, tra cui la condizione di “duplice assenza” che vive il migrante: da una parte ci sono le aspettative e le aspirazioni che assumono un significato di prospettiva, dall’altro la terra d’esilio può essere associata all’isolamento e alla perdita delle radici.
L’immigrato è una presenza che si impone allo sguardo, necessita di un discorso, ma l’emigrato la vive come un’assenza: si ammutolisce davanti al rifiuto di quello che è stato prima, da una parte, e l’inaccessibilità (spesso burocratica) dall’altra, davanti a sé. Così finisce che in lui si scatena un senso di colpa per aver abbandonato la famiglia, la terra d’origine e un sentimento nostalgico di ritorno al passato che produce una chiusura sulle proprie tradizioni. La sua presenza di fatto è una duplice assenza, nella terra che ha lasciato e nella terra promessa, è “atopos, n senza luogo, fuori luogo, inclassificabile (Sayad, 1978). Trovo questa immagine particolarmente preziosa oggi, per cercare di comprendere seriamente quello che avviene in Europa e nel nostro paese, davanti a un’informazione che spesso manipola i dati scientifici per dare spazio ai fenomeni percepiti dall’uomo della strada.
Se riuscissimo a oltrepassare allora le idee astratte dei valori, per praticare una “contingenza del vivere insieme”, i punti di contatto, di ogni esistenza umana, forse
potremmo ritrovarci nei gesti semplici e solidali di un buon vicinato: dal latino cum tangere, detto di due elementi che toccano un bordo comune. Ovvero una prospettiva cosmopolita nella vita quotidiana sotto il prisma del rispetto della differenza, una nuova grammatica generativa della cultura dell’accoglienza. Perché se non sorridiamo o non siamo capaci di rivolgere una parola ai nostri vicini significa che i veri sradicati siamo noi.